TEFFI E DUE RACCONTI SUI “BLINÌ”

 

Teffi era lo pseudonimo della scrittrice Nadežda Aleksandrovna Lochvickaja (1872-1952), che godette di una straordinaria popolarità tra i lettori della Russia prerivoluzionaria. Secondo i contemporanei, Teffi era ammirata letteralmente da tutti, a partire dal personale postale e telegrafico fino all’imperatore Nicola II.

Emigrata dopo la rivoluzione, Teffi continuò a riscuotere successo anche all’estero. I suoi feuilleton spiritosi, talvolta pungenti, uscivano ogni settimana con grande attesa dei lettori. L’occhio acuto della scrittrice notava tutto ciò che c’era di divertente e buffo nella vita degli emigranti. Come spiegava Teffi, «dare a una persona la possibilità di farsi una risata non è meno importante che fare l’elemosina a un mendicante… Se ti fai una risata, la fame dà un po’ meno tormento. Chi dorme mangia a pranzo, ma secondo me chi ride mangia a sazietà. O quasi».

Questo divenne un motto non solo letterario, ma anche di vita, poiché la scrittrice, anche se si trovava in condizioni economiche piuttosto difficili, riusciva comunque a far diventare qualsiasi occasione una festa. Accanto a lei, anche le persone più noiose, cupe e brontolone si trasformavano.

Nonostante la fama e la gloria, Teffi a volte era travolta dal dubbio che dietro di sé non avrebbe lasciato «la minima traccia». Considerava i suoi racconti brevi, brillanti e umoristici, come «effimeri». Più tardi, ebbe ragione Aldonov a definire i suoi racconti «una testimonianza dell’epoca, materiale per gli storici a venire». Pare che la comparsa delle nuove raccolte di Teffi oggi non possa essere spiegata da un interesse puramente storico: è improbabile che qualcuno, a parte gli specialisti, sarebbe stato attratto dalle miniature letterarie di Teffi se in esse non avessimo rivisto il riflesso della nostra stessa vita.

(Dalla rivista «Nauka i žizn’», 2 (1996), pp. 146-149)

 

B L I N Ì

1. Il blin

 

È passato molto tempo. Erano circa quattro mesi fa.

Eravamo seduti sulla riva dell’Arno, in una profumata notte del sud. O meglio, non proprio seduti sulla riva, anche perché come si fa a stare seduti lì? È umido e sporco, se non indecoroso. Si usa dire così per poeticità, ma in realtà eravamo seduti sulla terrazza di un hotel.

La compagnia era eterogenea, era italo-russa.

Siccome tra noi non c’erano né amici troppo stretti né parenti, ci dicevamo solamente cose carine.

In particolar modo, riguardo al rapporto tra le due nazioni.

Noi, russi, eravamo estasiati dall’Italia e gli italiani hanno espresso la loro ferma, granitica convinzione che anche la Russia fosse bellissima. Dicevano, gridando, che gli italiani odiano il sole e non tollerano il caldo, che adorano il freddo e sognano la neve da quando sono bambini.

Insomma, ci eravamo persuasi a vicenda dei pregi delle nostre terre a tal punto che non eravamo più in grado di fare conversazione con la verve di prima.

«Sì, davvero, l’Italia è bellissima», riflettevano, pensierosi, gli italiani.

«Il gelo, invece… Quando vuole, mostra il peggio di sé…», ci dicevamo tra noi.

Abbiamo legato subito e, vedendo che gli italiani si erano un po’ montati la testa con la loro Italia, ci sembrava il momento di rimetterli al loro posto.

Anche gli italiani si erano messi a bisbigliare tra di loro.

«Voi avete un sacco di lettere biascicate», ha detto all’improvviso un italiano. «La nostra lingua è molto facile da pronunciare, voi invece fischiate e biascicate tutti».

«Già», abbiamo risposto noi con freddezza. «Facciamo così perché la nostra è una lingua molto ricca. Infatti, in russo ci sono tutti i suoni che esistono al mondo. Quindi è giocoforza che, a volte, succeda che fischiamo.»

«Ma quindi, voi avete anche il suono “ti-acca”, come gli inglesi?», ha chiesto, dubbioso, uno degli italiani. «Io non l’ho sentito.»

«Certo che lo abbiamo. Non importa che voi non lo abbiate sentito, e poi non è che possiamo pronunciare il “ti-acca” ogni momento. Abbiamo comunque molti altri suoni oltre a questo.»

«Il nostro alfabeto ha sessantaquattro lettere!», ho esclamato io.

Gli italiani mi hanno guardata per qualche minuto, senza parlare, io invece mi sono alzata e, dando loro le spalle, mi sono messa a osservare la luna. Era tutto più tranquillo, così. E poi, comunque, ognuno ha il diritto di prospettare la gloria della propria terra come meglio può.

C’è stato un momento di silenzio.

«Dovreste venire da noi a inizio primavera», hanno detto gli italiani, «quando è tutto in fiore. A fine febbraio, da voi, c’è ancora la neve, da noi invece c’è una tale bellezza!»

«Be’, anche da noi è bello a febbraio. Abbiamo la màsleniza.»

«C’è la màsleniza e si mangiano i blinì.»

«I blinì? E cosa sono?»

Ci siamo scambiati un’occhiata fra noi: come facevamo a spiegare a quei poveri stolidi che cos’è un blin?

«Il blin è molto buono», è stata la mia spiegazione, però non hanno capito.

«Sono fatti con il burro», ho precisato.

«E si mette la smetàna», ha aggiunto un russo della nostra compagnia. Ma la situazione non è migliorata per niente: non avevano capito cosa fosse un blin e, come se non fosse abbastanza, non avevano compreso neppure smetàna.

«Ci sono i blinì quando c’è la màsleniza», ha riassunto lucidamente una signora fra noi.

«I blinì… È importante che ci sia il caviale», ha spiegato un’altra.

«Allora è un pesce!», ha tirato a indovinare, alla fine, un italiano.

«Vedi che pesce che sono se li cucini!», ha risposto la signora, ridendo.

«Perché, il pesce non si cucina?»

«Sì che si cucina, ma un pesce ha una natura completamente diversa, la natura di un pesce, mentre i blinì sono fatti con la farina.»

«E si mette la smetàna», ha ribadito il russo.

«Si mangiano tantissimi blinì», proseguiva la signora. «Se ne mangiano una ventina e poi la si paga.»

«Sono velenosi?!», hanno chiesto gli italiani, strabuzzando gli occhi. «Sono di origine vegetale?»

«No, sono fatti con la farina, e la farina che si trova nei negozi non cresce da sola, no?»

Dopo che avevamo smesso di parlare, avevamo la sensazione che tra noi e i cari italiani, che mezz’ora prima erano estasiati dalla nostra terra, si fosse creato un abisso profondo e buio di reciproca diffidenza e incomprensione.

Si scambiavano occhiate e bisbigliavano tra di loro.

L’aria si era fatta sgradevole.

«Sapete, signori, con i blinì non ha molto senso andare avanti. Ci credono dei contaballe.»

La situazione non era delle migliori.

Tra noi, però, c’era una persona concreta e seria: un insegnante di matematica. Con severità, ha gettato uno sguardo a noi e un altro agli italiani e, con lucidità e chiarezza, ha detto:

«Adesso, mi concedo l’onore di spiegarvi che cos’è un blin. Per la realizzazione di quest’ultimo, si prende una circonferenza di tredici centimetri di diametro. Si riempie pi erre quadro con una massa di farina, latte e lievito. Poi, si sottopone tutto il composto a una cottura a fiamma lenta, l’uno separato dall’altra da uno strato intermedio di ferro. Per rendere meno intenso l’effetto della fiamma su pi erre quadro, si cosparge lo strato di ferro con acido oleico e stearico, ossia il cosiddetto burro. La miscela ottenuta per riscaldamento, compatta e di moderata elasticità e viscosità, si introduce poi nell’organismo delle persone tramite l’esofago, il che in grandi quantità è oltremodo dannoso.»

Dopo aver smesso di parlare, l’insegnante ha gettato uno sguardo su tutti gli altri, che esultavano.

Scambiatisi due parole, gli italiani hanno chiesto con timidezza:

«Ma per quale motivo fate tutto questo?»

L’insegnante, sorpreso per la domanda, ha alzato le sopracciglia e ha risposto con fermezza:

«Per divertimento!»

 

2. La grande màsleniza

 

Dalla cucina arriva del fumo, fitto, unto. Un fumo pungente, e gli ospiti, riuniti per l’antipasto, strizzano e sbattono gli occhi.

«Arrivano i blinì, arrivano i blinì!»

Arrivano. Ma non ce ne sono abbastanza. Il vostro vicino si è preso gli ultimi due e a voi tocca aspettare quelli appena fatti.

Ma quando i blinì appena fatti vengono serviti, ecco che la maggior parte delle persone ha già mangiato la prima porzione, così la domestica inizia a servire di nuovo daccapo.

Questa volta vi tocca un blin, uno solo, rifiutato da tutti, con un lato logoro e un buco al centro.

Lo prendete dall’assortimento con la delicatezza di un orfanello e iniziate a cercare il burro con lo sguardo.

Il burro è sempre all’altro lato del tavolo, è un fatto triste con cui bisogna fare i conti. Ma siccome non è uso che gli ospiti si portino il burro da casa, bisogna rassegnarsi al destino e masticare un blin scondito.

Una volta che l’avete finito, il destino, magari, vi sorride e vi passano il burro contemporaneamente da due lati. Il destino ama le persone miti e le premia sempre quando non hanno più bisogno.

Proprio al posto d’onore della tavola, è seduto solitamente il contaballe dei blinì. Si tratta molto semplicemente di un astuto mangione a cui piace spargere la voce che riesce a mangiare trentadue blinì.

Grazie a questo, si mette subito al centro dell’attenzione. Lo servono per primo, i blinì per lui vengono imburrati prima degli altri e viene aggiunta ogni tipo di guarnizione tipica della màsleniza.

Dopo averne mangiato quindici se non venti, a seconda dell’appetito, dichiara all’improvviso, tutto soddisfatto, che oggi i blinì non sono per niente cotti come si deve.

«È che non hanno quel che di… capito? Di impercettibile. Proprio quell’impercettibile che ne rende ben digeribili anche trentadue.»

Tutti restano delusi. E i padroni di casa offesi. Offesi per il fatto che quello ha mangiato, ma senza dare soddisfazione a nessuno.

Ma a lui non importa.

«Cos’è la gloria? Una splendida toppa sulle misere vesti di un artista!»

Ha fregato tutti, ha mangiato come voleva ed è contento.

Arrivano altri blinì appena fatti.

Ora che siete belli sazi, vi danno improvvisamente tre bei blinì caldi.

Li sbattete sul piatto e, in un gaio risveglio, gettate uno sguardo sul tavolo.

Alla vostra destra si staglia un piatto svuotato, verde, da salmone, a destra un’invitante barattolo di caviale e, proprio accanto al vostro piatto, è stata riposta una ciotolina in cui cinque minuti prima c’era la smetàna.

La padrona, con uno sguardo di supplica, vi chiederà di dire subito a gran voce che i blinì, propriamente parlando, sono più buoni al naturale, senza guarnizioni di nessun tipo, che in sostanza coprono il sapore, e che gli intenditori dei blinì li preferiscono appunto senza guarnizioni.

Una volta, avevo visto un ragazzo dal cuore grande, con dei blinì davanti, che sotto lo sguardo supplichevole della padrona ha fatto finta di trovare del caviale in un barattolo vuoto e se lo è messo nel piatto. Come se non bastasse, non si era dimenticato di spalmare su un blin questo caviale immaginario e ha fatto tutto con una così sincera abnegazione che la padrona, osservandolo, aveva persino cambiato espressione. Probabilmente, aveva pensato di essere impazzita e di aver perso la facoltà di vedere il caviale.

Dopo i blinì, vi obbligano a mangiare una zuppa di pesce, che non vuole né piace a nessuno, e ancora altre sciocchezze. E quando avete voglia di dormire, vi trascinano in salotto e vi obbligano a chiacchierare.

Che non vi venga in mente di sbirciare l’orologio e dire che dovete scrivere ancora due lettere. Guardatevi allo specchio: chi volete che vi creda?

Fate meglio ad andare dritti dalla padrona, alzare verso di lei il vostro sguardo sincero e dirle semplicemente:

«Voglio dormire.»

Rimane di sasso e non trova niente da dirvi.

E mentre sbatte gli occhi, fate in tempo a salutare tutti e a svignarvela.

La padrona penserà per molto tempo che siete dei burloni.

E be’, cosa c’è di meglio?

 

 

Tradotti in italiano da Oleg Carrus, University of Trieste

 

Edited by: Creative Words s.r.l. (Genova)

 

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